“Veduta della fonte delle Spelonche d’Egeria, fuor della Porta Capena (o di San Sebastiano)“. Contenuta nella raccolta “Vedute di Roma” della collezione del Duca di Wellington, ritrae l’aspetto del mausoleo di Cecilia Metella come doveva presentarsi agli occhi di Piranesi nel tra il 1745 e il 1778.
“Veduta della fonte delle Spelonche d’Egeria, fuor della Porta Capena (o di San Sebastiano)“. Contenuta nella raccolta “Vedute di Roma” della collezione del Duca di Wellington, ritrae l’aspetto del mausoleo di Cecilia Metella come doveva presentarsi agli occhi di Piranesi nel tra il 1745 e il 1778.
“Il sepolcro di Cecilia Metella“. Contenuta nella raccolta “Vedute di Roma” della collezione del Duca di Wellington, ritrae l’aspetto del mausoleo di Cecilia Metella come doveva presentarsi agli occhi di Piranesi nel tra il 1745 e il 1778.
L’iscrizione sulla stampa recita posta alla base della stampa recita: “Sepolcro di Cecilia Metella or detto Capo di bove fuori della porta di S. Sebastiano su l’antica via Appia A. Construttura co’merli aggiuntavi ne tempi bassi B. Rovine di altre fortificazioni de medesimi tempi”.
“Il sepolcro di Cecilia Metella“. Contenuta nella raccolta “Vedute di Roma” della collezione del Duca di Wellington, ritrae l’aspetto del mausoleo di Cecilia Metella come doveva presentarsi agli occhi di Piranesi nel tra il 1745 e il 1778.
L’iscrizione sulla stampa recita posta alla base della stampa recita: “Sepolcro di Cecilia Metella or detto Capo di bove fuori della porta di S. Sebastiano su l’antica via Appia A. Construttura co’merli aggiuntavi ne tempi bassi B. Rovine di altre fortificazioni de medesimi tempi”.
“Veduta del tempio di Cibele in Piazza della Bocca della Verità”
“Veduta del tempio di Cibele in Piazza della Bocca della Verità“. Contenuta nella raccolta “Vedute di Roma” della collezione del Duca di Wellington, ritrae l’aspetto dei resti del tempio di Cibele, oggi attribuito al culto di Ercole Vincitore.
“Veduta del tempio di Cibele in Piazza della Bocca della Verità“. Contenuta nella raccolta “Vedute di Roma” della collezione del Duca di Wellington, ritrae l’aspetto dei resti del tempio di Cibele, oggi attribuito al culto di Ercole Vincitore.
“La Piramide di Caio Cestio“. Contenuta nella raccolta “Vedute di Roma” della collezione del Duca di Wellington, ritrae l’aspetto dei resti della Piramide come doveva presentarsi agli occhi di Piranesi nel 1756.
Dalla metà del ‘600 sino all’800 era di moda svolgere un viaggio in Italia, sulle tracce dell’antica cultura classica, questo viaggio prendeva il nome di “Grand Tour” (le radici di quell’arte romantica che di li a poco arriverà la possiamo, a mio parere, già trovare qui. Goethe stesso scriverà proprio del suo viaggio in Italia). Attorno ad esso fiorì in Italia una densissima produzione di veri e propri souvenir che andavano dalle rappresentazioni su tela/incisioni e acqueforti alla produzione di oggetti e fake per cui i Granturisti (appartenenti alla nobiltà e all’alta borghesia) andavano pazzi. Nel caso delle rappresentazioni delle rovine spesso gli artisti si prendevano delle licenze tese ad esasperare la monumentalità soverchiante rispetto all’umano, simbolo della monumentalità della cultura che le generò.
“La Piramide di Caio Cestio“. Contenuta nella raccolta “Vedute di Roma” della collezione del Duca di Wellington, ritrae l’aspetto dei resti della Piramide come doveva presentarsi agli occhi di Piranesi nel 1756.
Dalla metà del ‘600 sino all’800 era di moda svolgere un viaggio in Italia, sulle tracce dell’antica cultura classica, questo viaggio prendeva il nome di “Grand Tour” (le radici di quell’arte romantica che di li a poco arriverà la possiamo, a mio parere, già trovare qui. Goethe stesso scriverà proprio del suo viaggio in Italia). Attorno ad esso fiorì in Italia una densissima produzione di veri e propri souvenir che andavano dalle rappresentazioni su tela/incisioni e acqueforti alla produzione di oggetti e fake per cui i Granturisti (appartenenti alla nobiltà e all’alta borghesia) andavano pazzi. Nel caso delle rappresentazioni delle rovine spesso gli artisti si prendevano delle licenze tese ad esasperare la monumentalità soverchiante rispetto all’umano, simbolo della monumentalità della cultura che le generò.
Contenuta nella raccolta “Vedute di Roma” ritrae l’aspetto dei resti della Basilica di Massenzio e Costantino nel 1760 c.</p> <p>Dalla metà del ‘600 sino all’800 era di moda svolgere un viaggio in Italia, sulle tracce dell’antica cultura classica, questo viaggio prendeva il nome di “Grand Tour” (le radici di quell’arte romantica che di li a poco arriverà la possiamo, a mio parere, già trovare qui. Goethe stesso scriverà proprio del suo viaggio in Italia). Attorno ad esso fiorì in Italia una densissima produzione di veri e propri souvenir che andavano dalle rappresentazioni su tela/incisioni e acqueforti alla produzione di oggetti e fake per cui i Granturisti (appartenenti alla nobiltà e all’alta borghesia) andavano pazzi.
“La Basilica di Massenzio“. Contenuta nella raccolta “Vedute di Roma” ritrae l’aspetto dei resti della Basilica di Massenzio e Costantino nel 1760 c.
Dalla metà del ‘600 sino all’800 era di moda svolgere un viaggio in Italia, sulle tracce dell’antica cultura classica, questo viaggio prendeva il nome di “Grand Tour” (le radici di quell’arte romantica che di li a poco arriverà la possiamo, a mio parere, già trovare qui. Goethe stesso scriverà proprio del suo viaggio in Italia). Attorno ad esso fiorì in Italia una densissima produzione di veri e propri souvenir che andavano dalle rappresentazioni su tela/incisioni e acqueforti alla produzione di oggetti e fake per cui i Granturisti (appartenenti alla nobiltà e all’alta borghesia) andavano pazzi.
Nel caso delle rappresentazioni delle rovine spesso gli artisti si prendevano delle licenze tese ad esasperare la monumentalità soverchiante rispetto all’umano, simbolo della monumentalità della cultura che le generò.
“Il Ponte Salario“. Rappresenta l’antico Ponte Salario in Roma. L’acquaforte fu realizzata nel 1754
Anche questo lavoro si inserisce nel filone delle vedute più in voga durante l’epoca del Grand Tour (una sorta di pellegrinaggio laico e culturale delle élites europee del Settecento). Il Ponte Salario era una struttura antichissima (oggi purtroppo rimane molto poco, per non dire nulla della struttura antica) costruita dagli etruschi e sotto il quale scorre l’Aniene, le cui acque alimentavano numerosi acquedotti romani. Secondo la tradizione i Romani in fuga vi transitarono dopo aver sottratto le donne agli sventurati Sabini, come raccontato nel celebre “Ratto delle Sabine”. Questo antico ponte vide i Goti di Ricimero accamparvisi durante la campagna contro il generale romano Antemio e che vide come tragico epilogo il saccheggio di Roma nel 472 d.C. da parte di Ricimero. Il ponte fu successivamente abbattuto nel 574 da Totila, durante la guerra Greco-Gotica, dopo la ritirata Gota successiva alla riconquista di Roma da parte di Belisario (generalissimo al comando dell’esercito romano d’oriente). Il Ponte fu ricostruito da Narsete (generale Bizantino che portò a termine la conquista della Penisola avviata con Belisario per conto dell’imperatore Giustiniano) che vi lasciò un’iscrizione: “Narsete uomo gloriosissimo, dopo la vittoria sui Goti e dopo aver restituito la libertà a Roma e a tutta l’Italia, restaurò il ponte di via Salaria distrutto fino all’acqua da Totila – crudelissimo tiranno – e ripulito l’alveo del fiume lo sistemò molto meglio di quanto fosse mai stato”. Fu probabilmente nel corso dell’ottavo secolo che la struttura venne fortificata con il torrione (che vediamo rappresentato nel render e prima ancora dal Piranesi nella sua opera). La struttura subì numerose distruzioni e ricostruzioni sino a quando nel 1930, nell’Italia Fascista, fu distrutto e ricostruito in cemento.
“Il Ponte Salario“. Rappresenta l’antico Ponte Salario in Roma. L’acquaforte fu realizzata nel 1754
Anche questo lavoro si inserisce nel filone delle vedute più in voga durante l’epoca del Grand Tour (una sorta di pellegrinaggio laico e culturale delle élites europee del Settecento). Il Ponte Salario era una struttura antichissima (oggi purtroppo rimane molto poco, per non dire nulla della struttura antica) costruita dagli etruschi e sotto il quale scorre l’Aniene, le cui acque alimentavano numerosi acquedotti romani.
Secondo la tradizione i Romani in fuga vi transitarono dopo aver sottratto le donne agli sventurati Sabini, come raccontato nel celebre “Ratto delle Sabine”.
Questo antico ponte vide i Goti di Ricimero accamparvisi durante la campagna contro il generale romano Antemio e che vide come tragico epilogo il saccheggio di Roma nel 472 d.C. da parte di Ricimero.
Il ponte fu successivamente abbattuto nel 574 da Totila, durante la guerra Greco-Gotica, dopo la ritirata Gota successiva alla riconquista di Roma da parte di Belisario (generalissimo al comando dell’esercito romano d’oriente).
Il Ponte fu ricostruito da Narsete (generale Bizantino che portò a termine la conquista della Penisola avviata con Belisario per conto dell’imperatore Giustiniano) che vi lasciò un’iscrizione: “Narsete uomo gloriosissimo, dopo la vittoria sui Goti e dopo aver restituito la libertà a Roma e a tutta l’Italia, restaurò il ponte di via Salaria distrutto fino all’acqua da Totila – crudelissimo tiranno – e ripulito l’alveo del fiume lo sistemò molto meglio di quanto fosse mai stato”.
Fu probabilmente nel corso dell’ottavo secolo che la struttura venne fortificata con il torrione (che vediamo rappresentato nel render e prima ancora dal Piranesi nella sua opera).
La struttura subì numerose distruzioni e ricostruzioni sino a quando nel 1930, nell’Italia Fascista, fu distrutto e ricostruito in cemento.
“L‘isola Tiberina“. Contenuta nella raccolta “Vedute di Roma, Libro I, tav. LXVI” ritrae l’aspetto dell’isola nel 1775 incui era ancora visibile in maniera quasi completa la la forma a prua di nave, oggi visibile solamente in parte.
L’isola meta del Grand Tour (secc. XVIII e XVIV) era un soggetto molto in voga nelle stampe souvenir prodotte per i “grandturists” oltre che per il suo singolare aspetto anche per la sua storia affascinate, ricca di miti e leggende. La tradizione (ma si tratta di un mito) vuole che l’isola si sia formata nel 510 a.C. dai covoni del grano mietuto a Campo Marzio, di proprietà del re Tarquinio il Superbo, gettati nel Tevere al momento della rivolta che ne causò la cacciata. Le messi, impastandosi con la fanghiglia presente nel fiume diedero origine ad un primitivo isolotto. Ma la caratteristica che balza maggiormente agli occhi è la sua bizzarra prua in marmo bianco… Ancora una volta le fonti ci raccontano la sua origine: Pare che nel 292 a.C. Roma fu colpita da una grande pestilenza. Per trovare una soluzione all’emergenza Il senato fece costruire sull’isola, un tempio dedicato ad Esculapio (divinità legata alla medicina) e inviò una delegazione a bordo di una nave ad Epidauro – in cui sorgeva un famosissimo tempio in cui la divinità, attraverso un particolare rito, suggeriva in sogno la cura al malato- per ottenere una statua della divinità. Ottennero invece un serpente (il serpente attorcigliato ad un bastone era il simbolo della divinità) che posero a bordo della loro nave. Il serpe si arrotolò intorno all’albero della nave, presagio molto fausto. Al ritorno sul Tevere, il serpente scivolò dalla nave e nuotò verso l’isola, segno che voleva il suo tempio su quell’isola. Dopo la sua costruzione infatti la peste svanì miracolosamente. In ricordo di questo prodigio i romani decisero di configurare l’isola come una grande nave sulla cui prua erano scolpiti il bastone e una raffigurazione della divinità. Quest’ultimo dettaglio è presente nell’incisione di Piranesi, nella mia ricostruzione e nella realtà, dato che solamente quella porzione è sopravvissuta allo scorrere della storia. Questa sua vocazione “sanitaria” è rimasta ancora oggi perché vi sorge l’ospedale Fatebenefratelli.
“L‘isola Tiberina“. Contenuta nella raccolta “Vedute di Roma, Libro I, tav. LXVI” ritrae l’aspetto dell’isola nel 1775 incui era ancora visibile in maniera quasi completa la la forma a prua di nave, oggi visibile solamente in parte.
L’isola meta del Grand Tour (secc. XVIII e XVIV) era un soggetto molto in voga nelle stampe souvenir prodotte per i “grandturists” oltre che per il suo singolare aspetto anche per la sua storia affascinate, ricca di miti e leggende. La tradizione (ma si tratta di un mito) vuole che l’isola si sia formata nel 510 a.C. dai covoni del grano mietuto a Campo Marzio, di proprietà del re Tarquinio il Superbo, gettati nel Tevere al momento della rivolta che ne causò la cacciata. Le messi, impastandosi con la fanghiglia presente nel fiume diedero origine ad un primitivo isolotto. Ma la caratteristica che balza maggiormente agli occhi è la sua bizzarra prua in marmo bianco… Ancora una volta le fonti ci raccontano la sua origine: Pare che nel 292 a.C. Roma fu colpita da una grande pestilenza. Per trovare una soluzione all’emergenza Il senato fece costruire sull’isola, un tempio dedicato ad Esculapio (divinità legata alla medicina) e inviò una delegazione a bordo di una nave ad Epidauro – in cui sorgeva un famosissimo tempio in cui la divinità, attraverso un particolare rito, suggeriva in sogno la cura al malato- per ottenere una statua della divinità. Ottennero invece un serpente (il serpente attorcigliato ad un bastone era il simbolo della divinità) che posero a bordo della loro nave. Il serpe si arrotolò intorno all’albero della nave, presagio molto fausto. Al ritorno sul Tevere, il serpente scivolò dalla nave e nuotò verso l’isola, segno che voleva il suo tempio su quell’isola. Dopo la sua costruzione infatti la peste svanì miracolosamente. In ricordo di questo prodigio i romani decisero di configurare l’isola come una grande nave sulla cui prua erano scolpiti il bastone e una raffigurazione della divinità. Quest’ultimo dettaglio è presente nell’incisione di Piranesi, nella mia ricostruzione e nella realtà, dato che solamente quella porzione è sopravvissuta allo scorrere della storia. Questa sua vocazione “sanitaria” è rimasta ancora oggi perché vi sorge l’ospedale Fatebenefratelli.